Una donna troppo moderna per i suoi tempi così la famiglia e la società hanno cercato di cancellarla dalla storia dell’arte.
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La prima e la seconda puntata:
Faccio l’infermiera a Montfavet, sotto Avignone. Dove lavoro, le pazienti sono in costante pericolo, possono compiere da un momento all’altro dei gesti estremi. Le famiglie e lo Stato le dimenticano, e gli va bene così. Siamo le custodi dello scheletro nell’armadio. Scrivo questa lettera per afferrare il ricordo di Camille.
Camille ho ancora in mente la tua frase: Tredici anni di libertà mi sono costati trent’anni di manicomio. L’atto del creare arte era stato il fulcro dei tredici anni, l’espressione del tuo mutamento e della conseguente ricerca di come esprimere l’autenticità dell’anima. Rodin era stato parte del motore. Lo scultore di fama, l’immenso autodidatta, solo a te confessava i suoi sensi di colpa più intimi. Sapevi del conflitto interiore provato per la morte di sua sorella in convento. Lui le aveva presentato un corteggiatore ambiguo e così la ragazza se n’era andata in paradiso a causa di una peritonite...
Rose Beuret faceva la lavandaia, passava le ore a cucire bottoni, le domeniche usciva con Rodin per lunghe passeggiate in campagna, o nei boschi della periferia.
Cenavi con quel chiodo fisso in testa: te li immaginavi zitti, mano nella mano, mesti, con grandi alberi intorno per ripararli dalle responsabilità. Tu eri così diversa: eclettica, totalitaria nei sentimenti, esigente e determinata, e trascorrevi sempre più giorni in solitudine nello studio di Parigi.
“Ci sono momenti in cui francamente credo che ti dimenticherò. Ma poi, in un solo istante, sento la tua terribile potenza. Abbi pietà, crudele. Non ne posso più, non posso più passare un giorno senza vederti. E no, l’atroce follia. È finita, non lavoro più, divinità famelica, e tuttavia ti amo furiosamente.”
Rodin
Uscivi di notte, altrimenti la gente ti offendeva senza un uomo in casa. Dentro le mura eri l’artista, fuori rappresentavi lo scandalo da additare.
“Grazie perché devo a te tutta la parte di cielo che ho avuto nella mia vita.”
Rodin
Tuo fratello Paul era al corrente di ogni dettaglio. Vi confessavate l’un l’altra fin da piccoli, e ancora la corrispondenza fra voi era cospicua. Mi avevi fatto leggere la sua lettera del 25 dicembre 1886. Te la scrisse di getto, appena si era seduto alla scrivania.
Figlio di un anticlericale, A Natale del 1886, si era convertito al cattolicesimo mentre ascoltava il Magnificat nell’ora dei vespri:
“In un istante, il mio cuore fu toccato e io credetti […] È proprio vero, Dio esiste, è qui. È qualcuno, un essere personale come me! Mi ama, mi chiama. […] Era a me Paul Claudel che si rivolgeva e prometteva il suo amore. Non avevo bisogno che mi spiegasse cos’era l’inferno: vi avevo trascorso la mia stagione. L’inferno è dovunque non c’è Cristo”
Paul Claudel
Da quel momento in poi, la sua opera come letterato fu impregnata da un rigido credo, c’era Dio e l’uomo poteva essere un peccatore oppure un santo.
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Mi chiedevi spesso: ‘Da dove viene tale ferocia’?
Camille la tua carriera era straordinaria. Eri cresciuta in piena indipendenza invece Paul quel lustro nell’arte non lo trovò mai, né come poeta né come drammaturgo, fu invece la carriera politica a premiarlo. Doveva impegnarsi nello stringere amicizie, alleanze, era obbligato a fare continue referenze, soprattutto gli serviva una famiglia dalla reputazione impeccabile.
Ho visto io per prima la tua cartella clinica. Era stata firmata una settimana dopo il 10 marzo 1913, la data della morte di tuo padre. Serviva il via libera per ripulire l’onore del nome Claudel, così dopo il funerale nessun parente ti avrebbe più protetta.
“In questo momento, vicino alle feste, penso alla nostra cara mamma. Non l’ho mai più rivista dopo il giorno in cui avete preso la decisione di mandarmi in un manicomio! Penso a quel bel ritratto che le avevo fatto all’ombra del nostro bel giardino. I grandi occhi in cui si leggeva un dolore segreto, lo spirito di rassegnazione che regnava sul suo volto, le mani incrociate sulle ginocchia in totale abbandono: tutto indicava la modestia, il sentimento del dovere portato all’eccesso, tutto questo era proprio la nostra povera mamma. Non ho più rivisto il ritratto (e nemmeno lei).”
Camille
Bussarono alla porta. Eri a tavola, da sola. Ti alzasti convinta fosse un vicino, magari Rodin.
Le guardie ti hanno strattonato lungo tutta la strada. Hai protestato, chiesto cosa avevi fatto per meritarlo, urlato di chiamare Paul o tua madre che ti avrebbero salvata, ma erano stati loro due a firmare l’ordine di reclusione per il manicomio di Montfavet!
‘Da dove viene tale ferocia’? Per tua madre ammettere il tuo successo, significava accettare il rischio di essere oscurata. Lei che non vi abbracciava mai quando tu e Paul eravate piccoli. Probabilmente era lei l’artefice delle parole che vi hanno diviso. Non venne mai a farti visita.
Paul, in trent’anni, si fece vivo solo sette volte, ne sono sicura, le abbiamo annotate insieme con date e orari. Nel frattempo divenne Vice Console per gli Stati Uniti, in seguito loro Ambasciatore e, a fine carriera, fu nominato Accademico di Francia. L’uomo per lui era santo o peccatore, tu, purtroppo, eri rientrata nella seconda categoria.
“Mi si rimprovera (crimine spaventoso) di aver vissuto da sola, di passare la mia vita con dei gatti, di avere manie di persecuzione! È a causa di queste accuse che sono incarcerata come una criminale, privata della libertà, privata del cibo, del fuoco e delle comodità più elementari!”
Camille in una lettera al medico che ha firmato il suo internamento, 1918.
La quarta puntata:
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Ho scoperto questa storia durante la mia prima vista al meraviglioso museo Rodin, mi ha folgorata, poi penso di aver cercato di dimenticarla, perché è davvero intollerabilmente triste. Ma è molto bello ritrovarla nel tuo racconto. Grazie.