Se andate ai mercatini dell’antiquariato, vi capita mai di fermarvi a leggere le vecchie cartoline? Sono piccole storie dentro cornici di carta ingiallita, sopravvivono nel tempo. Quante emozioni possono contenere poche righe? Bugie, attese, amore, meraviglia, nostalgia, tanti ingredienti da riversare con cura in una piccola storia: la lettera di Lora a Lèa.
About me
Scrivo storie perché amo il tempo universale, quello delle emozioni poiché appartiene a tutti noi. Mi lascio ispirare dalle vite attorno a me, anche da quelle del passato. Possiamo essere l’uno per l’altro come degli specchi dove ritrovarci.
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Comici si nasce
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Cara Lèa,
La domanda migliore che mi hanno fatto, durante un’intervista, è stata: “Perché hai scelto di far ridere la gente?”.
Te lo ricordi anche tu, vero? Eravamo in quella piccola redazione, fra palazzi bianchi, in Rue de Douai, poco distante da Montmartre. La stanza aveva l’aria condizionata rotta e la ragazza seduta di fronte a noi si asciugava la fronte con il tovagliolo del cinese, sporco di salsa di soia. Entrambe ci auguravamo di vederla passarselo sopra le labbra, così si sarebbe disegnata un bel paio di baffi.
E tu, Lèa, perché hai scelto di far ridere la gente?
Io lo so bene, eccome se ne sono conscia, è stato grazie al nostro incontro che ho voluto proseguire la mia carriera come comica. Si è vero, quando mi hai conosciuta già mi esibivo ma volavo alto solo a parole, dicevo di avere grandi aspettative e, dentro di me, crepavo di paura al pensiero di non riuscire a sfondare. Quando ci siamo viste per la prima volta, tu mi hai salvata da me stessa. Rischiavo di lasciare cadere nel vuoto ogni pretesa di sogno, mi sentivo seduta sul trono di un impostore così evitavo di proporre i numeri agli impresari di livello e me ne stavo all’angolo, come un pugile colmo di rancore per le troppe sconfitte, tanto potevo attribuire le colpe degli insuccessi al sistema teatro: duro, selettivo, totalitario.
Avevo sedici anni quando ho cominciato a girare per i locali di vaudeville, possedevo due abiti scuri e basta, entrambi con l’orlo della gonna scucito e uno aveva pure una manica rotta! A volte mangiavo per settimane solo biscotti da pochi spiccioli (quelli dove burro e colesterolo danzano insieme) con delle banane, tante, troppe, infinite banane!
Ho imparato il mestiere dai miei genitori, mi portavano su e giù per la Francia dentro una vecchia roulotte, mio padre cantava, mamma suonava il piano e, assieme a una manciata di altri attori, animavano le serate fra battute e colpi di scena.
Sai che sono nata pazza? Nonna mi raccontava come, da bebè, cercavo di buttarmi giù dal tavolo per farla ridere, i limiti li inquadravo già come infinite possibilità. Non te l’ho mai detto ma sono fuggita dai miei genitori scappando dal tetto di un hotel, quasi mi sono buttata, c’era buio pesto, per poco non mi rompevo il collo per trascinare con me una piccola borsa e il libro di papà: I trucchi del clown. Mi vogliono bene, a modo loro, ne sono sicura, ma non dovevano opporsi alla mia sete esistenziale. Mamma gli dava sempre ragione quando papà ripeteva: “Mica devi fare la vagabonda come noi. Non se ne parla, andrai in collegio a Nizza.”.
Ho girato senza meta per anni poi, una sera qualunque, mentre pensavo di non riuscire più a sopportare l’alito da alcol del mio manager, lui mi fa: “Bevi un goccio con me. Stasera salirai sul palco del Paradis Latin! Si è ammalata la spalla di Lèa Strasser.”. Ho cominciato a lamentarmi, chi diavolo era questa Lèa con un cognome strano? E come potevo esibirmi con una sconosciuta? Ma quando le luci ti hanno illuminata, eri così ben vestita, elegante, di poche parole secche ma efficaci, tu mi hai incantata, ero in un altro mondo, rapita da te, immobile dietro le quinte. Pensavo: lei è già completa, a cosa le servo? Allora ho sentito una spinta, il manager mi ha buttata in mezzo ai giochi di colpo e mi sono trovata davanti a te. Dovevo reagire in qualche modo, ho fatto ciò che mi veniva meglio, così ho interpretato me stessa, Lora la pazza e la complicità fra noi due si è accesa in un istante. Facevo smorfie, saltavo, cadevo a terra roteando in qualche stramba acrobazia, sbucciavo banane sul palco. Alla fine tu sei diventata la mia spalla e io il clown al centro delle risate. Il pubblico ignorava quanto fosse fondamentale la tua eleganza, la maestria con cui interrompevi i miei giochi nel momento perfetto facendomi risaltare e andare incontro a un successo straordinario. La maschera buffa è l’apparenza, tu le hai dato un’anima et… boum! Tu l’hai creata!
É stato il periodo dei film a dividerci. Lèa quelle decisioni non dipendevano da me! Ti hanno sminuita agli occhi del pubblico, trattata come una non protagonista. La casa di produzione ci aveva relegato a due stereotipi: tu la bella cantante in cerca di un fidanzato, io la scema della storia e il mio nome era al centro di ogni locandina. Mi annoiavano i loro copioni, immagino fosse lo stesso per te. Sento il rimorso salire, potevo spiegarti meglio le mie ragioni, insistere, invece ci siamo entrambe chiuse nel cieco egoismo. Abbiamo smesso di comunicare, di essere noi due.
Lo sai, ero io a tenere la contabilità, a parlare con i dirigenti e sono stata io a trovare quella cifra con tanti zeri per pagare la nostra multa della Finanza, in cambio ti ho chiesto un solo favore: partecipare a uno spettacolo di beneficenza organizzato dal produttore che ci aveva anticipato quel denaro, in attesa della fine dei controlli fiscali, e dell’appianamento della questione legale.
Si trattava di una data secca, veloce, sapevi quanto ci tenevo.
Ti avevo mandato il copione dei numeri comici da giocarci nell’evento, tutti scritti da me, dove né tu né io eravamo stereotipi ma potevamo dare il meglio, magari tornare a essere amiche con il grandissimo affetto di prima ma tu, senza dirmi nulla, non ti sei presentata. Stavo piangendo dietro le quinte. Pensavo: come ha potuto lasciarmi sola? Sono andata avanti, lo show continua, lassù sotto ai riflettori freddi ho adattato ciascun numero scritto nel copione, ho improvvisato senza di te, e non ho mai smesso di pensare alla rabbia che saliva come un vortice, da lì non si è più placata.
Tre giorni dopo sono entrata nel tuo camerino. Mi hai subito evitata, guardavi altrove, ignoravi le domande, “Era per beneficenza. Che mi importa?”. Ma come hai potuto? Il mio copione era lì, posato sul tavolino, dentro la busta ancora chiusa, ci avevi rovesciato sopra il caffè e la cenere delle sigarette. Ti ho dato della stronza e tu mi hai lanciato la peggiore sentenza di separazione della storia: “Faccio film con te solo per il mio conto in banca.”.
Sono stata malissimo, per un anno non ho lavorato, inoltre la chiusura anticipata dei nostri contratti, voluta solo da me, tu avresti continuato a incassare assegni evitando di parlarmi sul set, mi aveva sottratto ingenti risorse finanziarie. Poi, due settimane fa, mentre bevevo un caffè prima di un’esibizione, ti ho vista in foto, parlavano di te al telegiornale. Eri stata male. Dicevano per il troppo fumo delle sigarette, attacco cardiaco. Sono salita sul palco, ancora una volta da sola, e ho raccontato di noi, senza sosta, di come ridevamo e facevamo divertire gli altri, di come tutti ti credevano la mia spalla mentre eri il fulcro della nostra fama. É stato un successo, perché noi possiamo ancora essere un successo.
Ti farò portare questa lettera in ospedale, avvolta attorno a una banana. Sono sempre la solita scema. E ci sono ancora per te, per parlarti. Veramente. Fanculo alla rabbia e all’orgoglio!
Sai, durante quell’anno di apatia, dormivo solo due ore a notte e così sono andata da un amico psichiatra, non ho risolto nulla perché mi ha detto: “Senta, la vedo bene, nessuna turba grave. Non posso risolvere i suoi problemi di ansia. Mi dispiace. Non me la sento.”, e io: “Perché?”, “Se lo faccio, che motivo avrà di far ridere la gente?”
Cara Lèa, lasciamo lì, sottoterra, le nostre incomprensioni e torniamo su, insieme, sul palco. Abbiamo tanti, tanti, tanti motivi per far ridere le persone.
Ti aspetto,
Lora, la tua spalla scema con banana
The Raven Cat si ispira alle storie passate, per questa lettera inventata la fonte alla base della fantasia è stata l’amicizia fra Jerry Lewis e Dean Martin.
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Grazie! I miei gatti trasformeranno il caffè il crocchette!